
I racconti dell’orrore della guerra-ombra del Tigrai squarciano il buio che li ha avvolti in questi 100 giorni esatti di blackout informativo e di isolamento. Molti testimoni confermano quanto da tempo scriviamo sui crimini di guerra e le atrocità commesse e quanto ripetuto sui social o sussurrato al telefono da giornalisti, attivisti e operatori umanitari. Confermati i massacri di civili – anziani, donne e bambini compresi – e di religiosi copti.
E gli stupri di massa, uccisioni e deportazioni forzate in Eritrea dei rifugiati eritrei dei campi di Hitsats e Shimelba, che immagini satellitari han- no mostrato distrutti e che nei giorni scorsi il governo di Addis Abeba ha dichiarato di non voler più riaprire mentre l’Onu non ha più potuto accedervi. Inequivocabili le notizie forniteci da fonti cattoliche, che non citiamo per ragioni di sicurezza. Ad Irob, piana semidesertica confinante con la regione Afar e l’Eritrea, sono stati uccisi solo a gennaio 30 preti copti ortodossi che pregavano in chiesa. A Wukro, Adigrat e Kobo mancano cibo e medicinali.
Agghiaccianti i racconti sulle uccisioni di giovanissimi sotto gli occhi dei genitori, cento solo a Irob, e delle frequenti violenze sessuali su donne e ragazze anche davanti ai mariti, spesso seguite dalla spietata uccisione delle vittime. «Meglio uccidere le donne del Tigrai perché domani partoriranno i woyane (i membri del Tplf, ndr) » avrebbero detto i militari eritrei a chi chiedeva il perché di tanto odio. Alla fine di gennaio, sempre a Irob, etiopi ed eritrei hanno ucciso 50 «mogli dei Woyane». Venerdì per la prima volta il governo etiope, con un tweet della ministra delle donne Filsan Abdullahi Ahmed, ha ammesso che una task force governativa «purtroppo ha stabilito che le violenze sessuali hanno avuto luogo con certezza e senza alcun dubbio».