
Era un negozio del mercato coperto a Rmeil, uno dei quartieri di Beirut più colpiti dall’esplosione del 4 agosto al porto. Ancora, muovendosi per le vie dell’agglomerato, si vedono i segni della tragedia che nella capitale del Libano ha causato 200 vittime e 300mila sfollati: case danneggiate, cumuli di detriti, palazzi sventrati. Anche il mercato è stato distrutto e poi abbandonato. Eppure in quell’ex punto vendita, che si presenta con tre grandi vetrine, qualcosa si muove. Da settimane un gruppo di ragazzi è al lavoro nonostante la pandemia. Mascherine sul volto, hanno in mano pennelli o cacciaviti, martelli o scatoloni. E ripetono: «La rinascita è possibile…».
Sono i giovani del vicariato apostolico di Beirut che riunisce i cattolici di rito latino. Impegnati a trasformare una bottega, destinata forse a restare vuota, in un “laboratorio di speranza” che, seppur nel suo piccolo, possa contribuire a fermare l’esodo dei libanesi dal Paese. Compresi i cristiani, uno dei pilastri del modello di convivenza che aveva fatto del Libano una scuola di riconciliazione (e di equilibrio) fra le fedi e le culture in Medio Oriente. Adesso si fugge. Per l’emergenza economica che, con l’inflazione galoppante, ha messo ginocchio la nazione e ha fatto impennare la povertà. Per la crisi politica che appare senza sbocchi nonostante le rivolte popolari che hanno alimentato illusioni naufragate nel nulla. Per il coronavirus che sta colpendo in maniera drammatica («Un tampone costa quanto uno stipendio», dicono i ragazzi).