
Può la letteratura calarsi nelle profondità di un abisso incommensurabile fino a far comprendere uno dei più grandi orrori del XX secolo? Ormai venticinque anni fa la remota località bosniaca di Srebrenica fu teatro dell’ultimo genocidio compiuto in Europa. I soldati della repubblica serba di Bosnia uccisero più di ottomila uomini e ragazzi bosgnacchi musulmani, in gran parte civili. Fu un massacro apparentemente privo di obiettivi strategici e motivazioni logiche.
Sebbene molti dei carnefici fossero ufficiali nati, educati e formati nel dogma della fratellanza e dell’unità dei popoli slavi uccisero al di fuori di ogni regola di guerra, solo per ragioni di appartenenza a un’altra nazionalità e a una diversa fede. Eppure il conflitto in Bosnia era quasi finito e i nazionalisti serbi avevano già ottenuto i loro obiettivi, creando uno spazio etnicamente ripulito lungo il confine segnato dalla valle della Drina.
Certo, volevano vendicare i soldati uccisi tra il 1992 e il 1995 e anche molti massacri dei secoli passati. Ma l’odio ancestrale trasformato in orientamento politico–strategico non può bastare, da solo, a spiegare l’incomprensibile, a penetrare nel cuore di tenebra di un massacro premeditato che segnò il culmine dell’orrore balcanico.
A cercare di razionalizzare il genocidio, sobbarcandosi un compito tanto arduo quanto affascinante, è il giornalista Ivica Ðikic in Metodo Srebrenica (Bottega Errante edizioni, traduzione di Silvio Ferrari): non un’inchiesta, né un saggio, e neanche un’opera di finzione, bensì uno straordinario romanzo documentario basato su fatti storici, su persone e vicende reali.
Già autore di un romanzo sul dopoguerra bosniaco portato al cinema dal regista premio Oscar Danis Tanovic (Cirkus Columbia), Ðikic ha analizzato e incrociato una mole imponente di testimonianze, documenti, capi d’accusa e trascrizioni dei principali dibattimenti del tribunale dell’Aia, ha ricostruito ora per ora gli avvenimenti dall’11 al 16 luglio 1995 nell’area di Srebrenica, e ha infine costruito un poderoso affresco letterario con elementi romanzeschi inseriti nella struttura del testo.
L’ha fatto individuando innanzitutto un protagonista, un uomo che al contrario del famigerato generale Ratko Mladic, non fu una delle stelle mediatiche di quella guerra. Ljubiša Beara, alto ufficiale dell’Armata Popolare Jugoslava, ricevette dallo stesso Mladic l’ordine di dirigere e organizzare lo sterminio di alcune migliaia di prigionieri bosgnacchi in appena quattro o cinque giorni e poi di far sparire i loro corpi nel più breve tempo possibile.
Il 14 luglio 1995, giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno, Beara iniziò a coordinare il più grande assassinio di massa con motivazione etnica compiuto in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Nel farlo non ebbe alcuno scrupolo di natura morale: per lui si trattò soltanto di un problema tecnico da risolvere con la maggior efficienza e rapidità possibile. «Fu troppo attivo, solerte e maleficamente creativo in quei cinque giorni – scrive Ðikic – per poterlo inserire nel cliché dell’esecutore neutrale di progetti e ordini altrui». Il suo ruolo chiave nel genocidio è dimostrato dalle intercettazioni telefoniche. In un colloquio del 15 luglio 1995 con il generale Radislav Krstic, comandante del Corpo della Drina, Beara chiese con urgenza altri soldati per uccidere i prigionieri rimasti. Esseri umani inermi e innocenti che durante la conversazione sono chiamati «pacchetti».