
La tragedia dei Rohingya in Myanmar, i bambini soldato della Sierra Leone, le rivolte in Cile e in vari paesi sudamericani, le minacce del populismo, lo sfruttamento e la distruzione delle foreste arrivano con la loro carica di tragedia e di speranza all’assemblea di Religions for peace che per tre giorni a New York si è interrogata sul contributo che le comunità religiose posso dare alla pace, creando piattaforme e luoghi di dialogo dove si possono incontrare i nemici, i capi di stato, le vittime e gli assalitori, gli sfruttati e gli sfruttatori. I leader religiosi presenti in sala rappresentano 90 Paesi e sono la voce di almeno un miliardo di credenti che si trovano allo stesso tavolo di lavoro con gli inviati Onu per il clima e per la prevenzione dei conflitti, ma anche con diverse fondazioni che vogliono supportare chi costruisce pace e tutela l’ambiente grazie alla fede. “La pace non è solo assenza di guerra ma assicurarsi che la povertà sia vinta, che si livelli l’ineguaglianza, che si lavori per salvaguardare il pianeta”, spiega ai giornalisti Azza Karram, nuovo segretario generale di questa assise di rappresentanti delle fedi -. La pace ha un’ampia agenda e non si può pensare di migliorare il mondo senza coinvolgere le persone di fede o che si riconoscono in un credo religioso, perché questo aggiunge valore anche al lavoro delle istituzioni internazionali”.