
«Al mondo chiediamo di non lasciarci soli. Per favore, non dimenticatevi che siamo qui. Padre Edwin è malato. Non abbiamo acqua. Ci minacciano di continuo. Rischiamo di morire, se non ci ammazzano prima». Le parole, strazianti, arrivano ad Avvenire dalla chiesa di San Miguel Arcangel di Masaya. A pronunciarle, con un filo di voce e l’ultimo rimasuglio di carica del cellulare, è Yonarquis Mártinez. Da sei giorni, l’avvocatessa per i diritti umani, il parroco – Edwin Román –, nove madri di giovani incarcerati negli ultimi mesi dal governo di Daniel Ortega e due ragazzi rilasciati di recente, Santiago Fajardo e Marlon Powell, sono prigionieri nell’edificio sacro. Con i rubinetti a secco e senza elettricità, dopo il taglio dei servizi da parte delle autorità. Dato il cordone di polizia, dalla chiesa è impossibile uscire. E nemmeno entrare. Chiunque abbia cercato di avvicinarsi a San Miguel per portare acqua e soprattutto insulina per padre Edwin, diabetico, è stato bloccato o peggio. Tredici esponenti dell’opposizione – riuniti nell’Unidad nacional azul y blanco (Unab) – sono stati addirittura arrestati sulle scale della chiesa, rinchiusi nel penitenziario di El Chipote e accusati di terrorismo.